Il racconto del concerto più atteso del Bologna Jazz Festival 2013
Cosa: Jack DeJohnette Group
Quando: 5 novembre 2013
Dove: Teatro Duse, Bologna
Foto: Achille Serao
di Antonio Tirelli
Arrivo in teatro mezz’ora prima dell’inizio del concerto e, come è mia costante abitudine, cerco di prestare orecchio a quel che dicono le persone attorno a me. Le aspettative sono le più varie…
Il racconto del concerto più atteso del Bologna Jazz Festival 2013
IN BREVE Cosa: Jack DeJohnette Group Quando: 5 novembre 2013 Dove: Teatro Duse, Bologna Foto: Achille Serao
di Antonio Tirelli
Arrivo in teatro mezz’ora prima dell’inizio del concerto e, come è mia costante abitudine, cerco di prestare orecchio a quel che dicono le persone attorno a me.
Le aspettative sono le più varie: sebbene quello di Jack DeJohnette sia uno dei nomi più importanti della musica contemporanea internazionale, c’è chi teme di essere deluso da un’esibizione “di mestiere” che lasci poco spazio all’originalità e alla creatività propriamente dette.
C’è chi si aspetta una prova di assoluto virtuosismo, data anche la presenza di Don Byron al sassofono e al clarinetto.
C’è chi si aspetta che il batterista statunitense e i suoi collaboratori offrano nuovamente al pubblico innovazione e freschezza, coerentemente con l’approccio che a DeJohnette è stato d’obbligo avere per quasi quarantacinque anni (risale al 1969 la pubblicazione di Bitches Brew di Miles Davis, album che ancora oggi è “avanti” rispetto a quanto è venuto dopo e nel quale la batteria fu affidata all’allora ventisettenne Jack).
E c’è anche chi è andato al Duse perché era figo andare a vedere il jazz al Duse e, non sapendo chi fossero i musicisti, non sapeva cosa aspettarsi.
Bene: nessuno è stato deluso e tutte le aspettative possibili sono state in qualche modo soddisfatte.
Indubbiamente il mestiere c’è, e tanto. Il concerto dello scorso 5 novembre è stato una sintesi di buona parte della storia del jazz dagli anni Sessanta ad oggi, una sorta di masterclass che solo musicisti eccezionali come quelli che erano sul palco avrebbero potuto offrire. Jack e i suoi hanno messo mano a tutto l’insieme di conoscenza che lo studio delle forme musicali del Novecento mette a loro disposizione, indubbiamente facendo mostra di virtuosismi per nulla accessibili a molti dei loro colleghi e talvolta non esattamente comprensibili al pubblico meno erudito in fatto di musica colta (in realtà il jazz nasce e cresce come qualcosa di assolutamente popolare, ma questa è un’altra storia da approfondire in altra sede).
Altrettanto indubbiamente, la band di DeJohnette è capitanata da unmaestro dell’equilibrio musicale, un batterista e compositore a cui poco interessa fare da primadonna e che preferisce mettersi al servizio degli strumenti che gli stanno attorno e soprattutto al servizio dei brani. La creatività si vede, anche se non si tratta di una creatività “facile”. Le esecuzioni richiedono una certa attenzione e non si tratta di brani che colpiscono immediatamente; sono discorsi da seguire con una sorta di atto di fiducia che consenta appunto di andare oltre quella patina di tecnicismo di cui si parlava poche righe fa.
È stato un concerto di confine, quello del 5 novembre, e più che di jazz si dovrebbe parlare – a voler essere pedanti e un po’ accademici – di fusion. Dall’Hard Bop a suggestioni mediterranee alla musica Klezmer (territorio ampiamente indagato da Byron), tutto viene miscelato e trasformato in qualcosa d’altro. Suggestivo anche se non sempre intelligibile ad un primo ascolto.
Due note per chiudere.
La prima: fa bene sottolineare la presenza e l’apporto del basso di Jerome Harris e del pianoforte e delle tastiere di George Colligan, il primo straordinario per completezza del suono e precisione; il secondo ottimo nella gestione di quattro tastiere e bravo anche come trombettista. Entrambi concentrati sui brani più che su loro stessi ed entrambi orientati a mettere in luce la bravura di Don Byron, probabilmente la vera locomotiva del quartetto.
La seconda: ho il brutto vizio di cronometrare i concerti ai quali assisto e sospetto che un’ora e venti minuti siano un po’ poco, per uno dei più grandi ed influenti musicisti viventi.
Esco dal Duse pensando che il concerto è stato contemporaneamente tutto quel che mi aspettavo e più di quanto mi aspettassi. Poi, mentre cammino per via Cartolerie, mi viene in mente una cosa: che in realtà non avevo idea di cosa aspettarmi, non avendo mai ascoltato il gruppo di Jack DeJohnette prima d’ora. Mi blocco in strada e realizzo di essere uno tra i fighetti andati a vedere il jazz al Duse perché faceva tanto figo andare a vedere il jazz al Duse…
Bel concerto, comunque.
P.S.
Per chi voglia approfondire, ecco il link ad uno dei brani eseguiti durante l’esibizione. Un grande omaggio al geniale pianista Ahmad Jamal:
E un esempio dell’eclettismo di Don Byron: