“Una band che non concede all’ascoltatore il lusso della prevedibilità”
Chi: Radiohead
Cosa: concerto
Quando: 25 settembre
Dove: Arena Parco Nord
Photo Credit: Henry Ruggeri
La scenografia è fatta da una serie di pannelli sospesi per aria. Dodici display, mi pare.
I musicisti daranno le spalle ad un muro di luci alto quasi quattro metri e largo venti.
Dietro il muro una serie di sbarre che sembrano enormi neon e probabilmente fanno parte anch’esse dell’illuminazione….
“Una band che non concede all’ascoltatore il lusso della prevedibilità”
Chi: Radiohead Cosa: concerto Quando: 25 settembre Dove: Arena Parco Nord Photo Credit: Henry Ruggeri
di Antonio Tirelli
La scenografia è fatta da una serie di pannelli sospesi per aria. Dodici display, mi pare.
I musicisti daranno le spalle ad un muro di luci alto quasi quattro metri e largo venti.
Dietro il muro una serie di sbarre che sembrano enormi neon e probabilmente fanno parte anch’esse dell’illuminazione.
Sono arrivato abbastanza presto da occupare un metro quadrato di terreno distante dal palco non più di quindici metri. Sono passate da poco le 17.00 e la gente è già tanta.
Prevedibile.
Alcuni – sicuramente molti, fra quelli che mi stanno intorno – malignano che sia stata quella la reale ragione che ha portato il concerto a deragliare da Piazza Maggiore all’Arena Parco Nord: la gente che puoi radunare nell’Arena è tanta, più di quella che potrà mai venirti in mente di radunare in piazza. Più gente, più biglietti, più soldi.
Altri attorno a me si lamentano che no, non sarà mica la stessa cosa… L’Arena…sì…l’Arena…ma vuoi mettere? Piazza Maggiore era un’altra cosa…
È andata così, e il concerto inizierà con l’handicap del confronto con un altro concerto mai avvenuto.
Per l’ennesima volta riesco a mettermi in fila per ascoltare una band di cui conoscevo poco o nulla. Passata una settimana ad informarmi sulla loro produzione in studio, non so che cosa aspettarmi da un live. I Radiohead sono una band che non concede all’ascoltatore il lusso della prevedibilità.
Alle ore 20.15, mentre l’Arena ribolle per l’attesa, sale sul palco il gruppo spalla del musicista canadese Caribou che sembra essere un’ottima premessa al concerto. Ad ascoltare, mi parrebbe un dj set se non fosse che on stage vedo – oltre a tastiera e consolle – chitarra, basso e batteria elettronica.
La performance che ci viene proposta è una sorta di electro pop che a momenti si risolve nella techno e talvolta avanza nei territori della dance ( per chi volesse approfondire, ecco un minuscolo spunto).
Fa il suo effetto: carica e allo stesso tempo distende la grande platea.
Alle 21.30 i pannelli sospesi per aria si animano, il muro di luci si accende di rosso vivo e così pure le sbarre. Il palco si trasforma in un mirabile spettacolo pirotecnico.
E i Radiohead, finalmente, danno inizio alla loro esibizione..
Immaginavo un Thom Yorke un po’ diverso, devo ammetterlo. Mi aspettavo un tipo un po’ emaciato, quasi fermo sul palco mentre canta. Uno malinconico e per niente carismatico.
E invece il frontman che ho di fronte è energico e si muove come un dannato. Magari appare un po’ timido nei momenti in cui cerca di blandire il pubblico con qualche parola detta in italiano, un tantino goffo nell’abbozzare qualche “come va?” o qualche “e allora?” che avrebbe magari potuto sostituire con un paio di frasi di senso compiuto in inglese. Tanto la maggior parte del pubblico avrebbe capito. Ma è la sua unica ingenuità: di fatto è un leader consapevole e un musicista di gran carattere.
L’ensemble della serata è potente e si serve, oltre che dei cinque membri della band, di una seconda batteria che amplifica non tanto i decibel quanto l’aggressività e il respiro, di per sé già molto ampio, dei brani.
Il pubblico è in visibilio e ne ha buon motivo: è chiaro da quel che si vede e si ascolta fin dai primi brani che i Radiohead sono davvero in forma e il repertorio è stato strutturato in maniera molto equilibrata, in modo che anche olle orecchie di un ignorante come me risultasse chiaro che stavo assistendo allo show di un gruppo che ha fatto della ricerca musicale la sua cifra stilistica e contenutistica. Ai miei timpani di ascoltatore retrò sono evidenti i riferimenti al puro e semplice e grande rock, ma risulta altrettanto palese un percorso artistico che dal rock è arrivato ad una nuova forma di energia. Non che i Radiohead siano gli unici ad aver mescolato chitarre elettriche con campionamenti, batteria acustica e loop vocali.
Sono uno dei simboli, però; uno dei simboli più evidenti di un passaggio ad una diversa elaborazione del concetto del fare musica avvenuto durante gli ultimi venti anni. Passaggio che nelle arti avviene ciclicamente e di cui abbiamo prove lungo tutto l’arco delle vicende umane: dopo la codifica in generi artistici, arriva qualcuno che costruisce il nuovo decodificando i generi stessi, decostruendoli e ricostruendoli in forme nuove.
E dunque: il rock, c’è. Tanto e di grande qualità.
Ma c’è anche lo sperimentalismo proprio dell’elettronica più avanzata degli ultimi quindici anni.
E ci sono anche i testi che si portano dietro l’approccio alla parola proprio dei linguaggi poetici più elaborati.
E ci sono richiami alla musica jungle, soprattutto quando i due batteristi decidono di pestare il piede sull’acceleratore.
E c’è pure il gusto per la ballata cantautorale con un bel pianoforte al centro del palco e l’apertura finale di sapore sinfonico.
E poi c’è anche quel che va oltre le canzoni. L’equilibrio della performance si spinge ben oltre il puro ascolto: mi è capitato raramente di assistere ad un live in cui musica e scenografia fossero così ben integrate come è stato martedì 25 settembre. I display proiettano contemporaneamente giochi di luce e immagini della band sul palco mentre l’intera illuminazione segue il ritmo delle canzoni con ipnotica precisione. I suoni diventano visioni e le visioni diventano suoni. Una raffinatissima miscela che regala al pubblico l’idea di assistere ad un’opera d’arte “totale”. I Radiohead (ed il loro staff tecnico) riescono non solo a trascendere i limiti imposti dal concetto di genere musicale, ma anche i confini – dati spesso per scontati ma per nulla invalicabili – fra opera musicale e opera visiva.
Il concerto come opera d’arte a sé stante.
Tutto sembra durare poco, e invece sono passate due ore e mezzo da quando la band è salita sul palco. Quasi quattro ore se si considera l’esibizione del gruppo di supporto.
Due bis non bastano. Il pubblico vorrebbe ancora qualcosa in più.
“Cazzo, ma Karma Police non l’hanno fatta…”
“Nooo! Ma hanno suonato solo un paio d’ore…”
A mezzanotte, o poco prima, lo show finisce. La band saluta e le luci di scena si spengono. Yorke e compagni si sono sottoposti ad uno di quei concerti spezzagambe che fanno perdere quattro chili in una sola serata. Di più non si poteva chiedere.
Mentre mi avvio al parcheggio, mi passano accanto due ragazzi che potranno avere diciotto anni.
“E dai! Stavolta è andata così ma alla prossima…”
“Sì, sì! Vedi che alla prossima ci tornano, qui!”
“Sì, dai. Tre o quattro anni e se fanno il tour in Italia in Piazza Maggiore ci vengono!”
“E sì che ci vengono. Sai che figata, il concerto in piazza!”
Il bello della buona musica: regala sempre nuove speranze.
Poco realistiche, magari. Ma pur sempre speranze.
28 settembre 2012