La Zona di Interesse non mostra l’orrore, ma la colpa. Sappiamo dell’orrore, la colpa è la facilità con cui ne gestiamo l’esistenza. Jonathan Glazer non mitiga la ferocia degli aguzzini mostrandoli come esseri umani, che curano i figli, la casa, i cespugli di lillà, riporta quella ferocia alla dimensione di un grumo nascosto all’interno dell’essere umano. I confini della cura sono immediati, strettissimi, limitati al proprio nucleo, e solo quanto rientra all’interno di quei confini suscita sentimenti e preoccupazioni che definiamo umani, tutto il resto non ha lo stesso peso, la stessa densità.
C’è un libro di Charlie Kaufman, assurdo e molto bello, Formichità, da poco pubblicato anche in Italia, che fra molte altre cose racconta di un uomo che dedica la propria esistenza alla realizzazione di un film a passo uno, della durata finale di tre mesi. Il lavoro dura circa novant’anni perché l’autore, oltre a realizzare il film, ricostruisce, senza riprenderla, anche l’esistenza degli Invisibili, costruisce le vicende di centinaia di pupazzi che rimangono, appunto, invisibili, ma che l’autore non può tralasciare mentre mette in scena le opere dei visibili.
Tutto il film di Glazer rispetta questa separazione tra visibili e invisibili, ma quello che succede al di là delle mura che separano e bloccano lo sguardo, tracima sotto forma di suoni, urla, abita l’aria che i visibili respirano e l’acqua in cui si bagnano. C’è piena consapevolezza di quel che accade e di quanto sono diretti responsabili, c’è l’accettazione, per niente problematica, di poterne trarre vantaggio, di potere alimentare in quel modo le comodità della propria esistenza.
Glazer sviluppa due film che coesistono, uno esclusivamente sonoro, infernale, l’altro visivo, gelido, fatto di inquadrature perfette, di burocrazia e considerazioni logistiche, di svaghi domestici e segnali esterni da ignorare, o da gestire nei limiti in cui questi arrivano, alla fine di un processo, a toccare il quotidiano. Come con lo snap con cui la pelle si separa dal corpo dissolto, nel suo precedente Under the Skin, un suono affilato, indefinibile e definitivo, il regista dissemina ne La Zona di Interesse effetti sonori autonomi, grugniti extradiegetici che nascono dalla presenza nel quadro dei gerarchi, effetti sonori che nascono dallo stridere dei piani indicando una sorta di incosciente permeabilità degli stessi. Da questa permeabilità, lo stravolgimento se non dell’animo, del corpo di Rudolf Höß. Nella sua molteplicità di livelli, separati artificialmente per mostrarne la grottesca coesistenza, La Zona di Interesse è un film che segna, scava, per alcuni versi prosegue il discorso de Il Nastro Bianco. Se Haneke portava il suo film negli anni in cui il nazismo stava ancora formando le sue radici, Glazer immerge nell’orrore mettendoci davanti al distacco con cui viene sistematicamente normalizzato.
(4,5/5)