CHI: La classe COSA:spettacolo teatrale DOVE: ITC Teatro San Lazzaro QUANDO: 18 dicembre 2021, ore 21 INFO E BIGLIETTI: itcteatro.it
Fabiana Iacozzilli regista e drammaturga de La classe, definisce questo suo lavoro un “docupuppets per marionette e uomini”. Prodotto insieme a Compagnia CrAnPi e andato in scena per la prima volta nel 2018, è in realtà prima di tutto uno spettacolo teatrale che porta sulla scena i ricordi di cinque anni di elementari. In quegli anni, dal 1983 al 1988, trenta bambini vengono educati presso un istituto gestito da suore. Maestra unica di questo gruppo di giovani menti è Suor Lidia, che ha lasciato un “bella impronta” con la sua cattiveria su tutti loro.
Questa frizione che si accende quando una forma coercitiva di educazione viene in contatto con menti ancora tutte da formare, è alla base dello spettacolo. La cassa di risonanza è quindi la memoria di quel periodo, il cosa è accaduto in quei cinque anni e cosa si sono portati dietro le menti e le formazioni umane di quei trenta alunni.
Per raccontare tutto questo, Iacozzilli ha creato insieme a Marta Meneghetti, Giada Parlanti ed Emanuele Silvestri una drammaturgia che riprende interamente le soluzioni del teatro di figura. Ed ecco spiegato il perché della definizione data da Iacozzilli. Definizione tanto necessaria a focalizzare le intenzioni dello spettacolo, da essere stata inserita come sottotitolo esplicativo.
L’impatto scenico e drammaturgico di questo lavoro, lo si potrà finalmente toccare con mano anche a Bologna per una unica data sabato 18 dicembre, presso ITC teatro di San Lazzaro (via Rimembranze 26, apertura di sipario ore 21).
Andato in scena per la prima volta nel 2018, per poi ricevere il prestigioso Premio In-Box l’anno seguente, La Classe porta infatti sulla scena una serie di marionette realizzate da Fiammetta Mandich (sue anche le scene), che cinque performer muovono dal vivo animando lo spazio teatrale. Le marionette, i puppet citati da Iacozzilli, agiscono quindi insieme a Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti dentro un luogo che chiameremo, appunto, “la classe”, mentre dall’esterno piovono su di loro le voci registrate di chi ricorda quella esperienza.
Ma indicare La classe con il termine di “docupuppets” ha probabilmente altre ragioni. Sicuramente non serve unicamente a sottolineare la presenza in scena di questi “pezzi di legno”, certamente non vuole rimandare in maniera secca al teatro di Kantor. È probabile sia una marca, un modo per mettere alla giusta distanza e così “svuotare dall’elemento patetico la materia” dello spettacolo stesso. Che pesca a piene mani dalla biografia di bambina di Iacozzilli come degli altri suoi ventinove compagni.
Questa porzione di biografia è vista dalla regista come un antro misterioso dove infanzia e memoria si rincorrono e si mescolano. Più precisamente dove la memoria di una infanzia va a recuperare la paura di prenderle da parte di Suor Lidia. Della religiosa, le voci raccontano gli occhi grandi per effetto delle lenti bifocali (quasi un rinnovata immagine del lupo di Cappuccetto Rosso), ma soprattutto l’immagine di “qualcuno di severo, di rigido”, di qualcuno che non voleva realmente “appassionarti allo studio”.
Quei ricordi vengono travasati nei movimenti fatti compiere ai burattini di legno anzi, imposti dai performer ai burattini, sotto le luci di Raffaella Vitiello. Una rappresentazione che molto dice di come l’intera classe elementare fosse immersa in un mondo terrorizzante, creato dalla suora insegnante. Muovendosi fra quello che la regista indica come documentario e una atmosfera da favola cupa La Classe si interroga, facendo interrogare lo spettatore, su cosa ognuno di noi si porta dietro, crescendo, della propria infanzia, del dolore sperimentato in quel periodo.
Più precisamente le domande che stanno alla base dello spettacolo sono due: “Che cosa ci facciamo con il dolore?” e “Cosa ogni essere umano è in grado di diventare a partire dal proprio dolore?” Il lavoro di Iacozzilli non offre giustamente risposte. Non conferma quello che dicono alcuni, ovvero che nessuno può guarire dalla propria infanzia; tantomeno accetta l’affermazione che tutto dipenda da quanto noi facciamo con la nostra infanzia. La visione che la regista offre, conduce (se conduce) lo spettatore a immergersi in un territorio profondo, terribile, labirintico da cui si riemerge per quel che si è: adulti. Per quel che può voler dire questo termine.