Chi: Rita Petruccioli Cosa: presentazione del graphic novel Ti chiamo domani Dove: Libreria IGOR-Senape Vivaio Urbano; via Santa Croce 10/ABC Quando: giovedì 4 luglio ore 19
Un graphic novel che possiamo definire solo come bello, Ti chiamo domani.
Così si intitola l’esordio in solitaria della romana Rita Petruccioli licenziato per BAO Publishing, che approda a Bologna per il tour di presentazione alle ore 19 di un torrido 4 luglio, negli spazi della libreria IGOR-Senape Vivaio Urbano in via Santa Croce 10/ABC.
Bello, dicevamo. Non solo per la maestria grafica e il segno plastico cui l’autrice ci ha abituati da tempo grazie anche alle sue opere precedenti – compreso tutto il lavoro di illustratrice per l’infanzia, ma anche per l’accorta capacità di sviluppare storia e psicologia dei personaggi.
Certo, qualcuno potrebbe far notare come Ti chiamo domani (pp. 144, colore, 18€) si regga su un pretesto efficace ma relativamente consueto. Tale è infatti l’incontro fra due sconosciuti che, partendo in camion da Tolosa arrivano in Sabina, spaccando a mezzo l’Italia. Altrettanto consueto è, allora, il lento incrociarsi dei loro vissuti, dove eventi drammatici dettano le decisioni che hanno formato il loro presente.
Ma questo, pur essendo il filo rosso della vicenda, non è quanto tiene incollato il lettore alla pagina. Petruccioli, come detto, mette in campo personaggi che, pur muovendosi in una momentanea terra di mezzo, cercano una evoluzione. Partono da grumi della loro esperienza, pesanti da gestire, impossibili da dire, per arrivare a esorcizzarli proprio nell’incontro.
L’on the road di Ti chiamo domani è un nostos, un ritorno alla terra di origine necessario per esorcizzare il passato, per elaborare un lutto, una offesa, una perdita. Per liberarsene, anche, almeno in parte. Qui, al contrario che nell’Odissea, le prove e gli ostacoli da superare si sciorinano all’interno della cabina di un bilico, divengono la necessità di parlare a chi è a tutti gli effetti all’altro da sé. Necessità che esplode per esorcizzare il proprio dolore, per trovare una luce alla fine del viaggio.
Petruccioli imbastisce quindi un piccolo teatro da camera, ma non chiude il suo racconto dentro questa cabina. Il suo libro è ricco di flashback che spiegano gli eventi o di “a lato” che allargano il senso delle metafore.
Molto bello (e non trovo altro aggettivo) il modo in cui, per esempio, l’autrice racconta in circa trenta vignette, con estrema delicatezza ma con puntualità, la violenza fisica che Chiara subisce dal suo “ragazzo” Kev. Sequenza quasi muta, ma di estrema efficacia per scoperchiare il dramma intimo della persona. Un dramma che ha bisogno di essere portato alla luce, dichiarato, per poterle permettere di scegliere, di ragionare senza false sovrastrutture ricattatorie, quel che vuole fare veramente della propria esistenza.
Ma se Chiara denuncia la sua confusione davanti all’azione di Kev soprattutto quando lo reincontra dopo alcuni mesi, Daniele sembra incarnare la figura del nocchiero.
Guida il camion come fosse una nave che attraversa i marosi del lutto e della disperazione, ma senza impartire lezioni edificanti. Anzi, dichiarando la propria impotenza, il suo passato di disperazione che non vuole passare del tutto e che lo porta a vivere da solitario. E tutto questo non lo rende assolutamente superiore a Chiara, solo vicino a lei per contrapposizione.
Ci sono due mondi che si incontrano in Ti chiamo domani, due esperienze: una femminile e una maschile. Sembrano in equilibrio. Appaiono differenti eppure necessarie una all’altra. Perché ognuna aggiunge informazioni. Elementi minimi? Forse. Ma necessari a piantare il seme di una scelta futura, utili a estirpare almeno parte di quella che è la pianta perniciosamente invasiva di un passato senza rimedio.
In questo percorso si innesta il rimando a Dino Buzzati, al suo Il deserto dei Tartari, a quel mastodontico simbolo che è la Fortezza Bastiani. Ed è qui che Petruccioli costruisce un puntuale “a lato”, utile a entrare ancor di più nel suo lavoro. Per Chiara come per Daniele, la Fortezza è infatti l’ossessione di qualcosa che non si vuole lasciare. Non tanto la paura del quanto può esserci dopo lontani da essa, bensì il restare fedeli a una immagine, a una aspettativa, a un ricordo che non è come noi lo conserviamo nella nostra testa. «È una fortezza interiore», fa dire Petruccioli al suo personaggio Chiara.
Una dichiarazione ineludibile per ciascuno di noi. Forse la cosa peggiore, la cosa che veramente taglia le gambe a ogni desiderio e possibilità di decidere della propria vita, del proprio destino, del proprio domani in autonomia.
Petruccioli incastona il dialogo fra i suoi due personaggi in un tempo recente, ma non a noi contemporaneo. Ci sono i cellulari, ma non gli smartphone. La messaggistica è scarna, mancano completamente i social. Il viaggio è quindi ancora più potentemente metaforico e squisitamente relazionale. Ognuno si dona all’altro lentamente, per quello che pensa, per quello che ha vissuto, per le sue paure.
L’orizzonte dei due protagonisti, da inizialmente nebuloso, alla fine del viaggio si trasforma nella fiammella necessaria a riaccendere la propria lampada interiore per illuminare il cammino. Ognuno dei due l’avrà presa dall’altro, da quel poco o da quel tanto che si sono trasmessi.