IN BREVE CHI: Massimo Vitali COSA: Intervista sul suo nuovo libro Una vita al giorno
L’ufficio stampa della sua casa editrice – per inciso e di passaggio, parliamo della Sperling&Kupfer -, lo tratteggia come “giovane autore di grande talento” lasciandoci perplessi. Non sul talento ché di quello Massimo Vitali ne ha da regalare, ma sul giovane autore. A nostro avviso la dicitura “giovane autore” va posta quando si indica un esordiente, non qualcuno che ha già scritto e di fatto presentato ai lettori il suo talento (appunto). E il buon Vitali, narratore da Bologna, lo ha dimostrato con una doppietta che precede questo Una vita al giorno. Doppietta invero un po’ lontana nel tempo, visto che otto anni separano questo dal penultimo Se son rose, oramai trasposto in una pellicola cinematografica che vedremo abbastanza presto. Quindi, per favore, tralascerei “giovane”, ma terrei “talentuoso”. Quello è indubbio, il talento c’è e le pagine di Una vita al giorno stanno a dimostrarlo, con tutto il peso di una ristampa arrivata a una sola settimana dalla sua uscita. Un romanzo che all’apparenza pesca dalla forma diaristica – ne riprende ritmi e cadenza – per raccontare di una presunta crisi, quella di Massimo, personaggio principale, colto alla svolta degli “anta”.
«Diciamo che il genere a cui appartiene Una vita al giorno è l’autofiction, ovvero “quando l’autore parla di sé”» ci dice Vitali, pizzicato fra un impegno e l’altro, collegati al romanzo e al film. «Quindi sì, il testo potrebbe anche essere un diario, ma non lo è. Per il semplice motivo che ho lavorato tanto per fare entrare il lettore in riferimenti a persone esistenti e fatti realmente accaduti per nulla casuali, fino a trasformare la mia quotidianità in un romanzo».
Vada per autofiction. Ma resta l’idea del diario, almeno nel come le situazioni sembrano concatenarsi attraverso una cronologia abbastanza chiara.
«E allora usiamo la metafora del pepe in cucina: ci dev’essere, ma non si deve sentire».
A leggere Una vita al giorno, il tuo approccio alla materia narrativa pare restare fedele a un modulo, eppure essere cambiato e tanto…
«Nella speranza che il tuo “tanto” possa riferirsi a un “bene”, durante questi otto anni non ho mai smesso di scrivere. Perciò, nel bene e nel male, la scrittura, come la vita, evolve».
Il cambiamento è sempre un bene, non ti pare? Ma come sei arrivato a questo tipo di scrittura? Sembrerebbe che tu abbia messo da parte un modo di essere narratore, di stare nel mondo della scrittura, per reinventartelo o quasi.
«Più che reinventato, direi sperimentato. In questo libro ho cercato di fotografare la vita quotidiana per iscritto con un filtro surreale. Sai, quello assente da Instagram, però presente nelle Storie di tutti».
L’elemento di partenza del romanzo non sembra tanto essere l’avvento dei quarant’anni per Massimo, quanto la felicità dei novantenni anzi, del novantenne Renzo…
«È una chiave di lettura molto interessante, fammici pensare. Per adesso, posso dirti che di certo il romanzo non è un “manuale di istruzioni per l’uso”, un manuale utile per affrontare il passaggio all’età degli “anta”».
Indubbiamente non era questo il tuo intento.
«Ho soprattutto cercato di creare un racconto che possa essere valido per un ragazzo di quindici anni come per un uomo di ottantaquattro, e mezzo».
La “crisi” dei quarant’anni, che dovrebbe muovere Massimo, potrebbe lasciar pensare a un racconto morale. O con intenti che in tale direzione vanno.
«No, nessun pretesto morale, almeno nelle mie intenzioni. Ma anche a volerlo trovare, sono sicuro che si tratterebbe comunque di un semplice effetto collaterale, per nulla nocivo alla salute del lettore. In questo romanzo ho raccolto aspetti della vita di ogni giorno che sviluppano riflessioni, a volte partendo dagli oggetti. Per esempio, partendo da un tergicristallo si può parlare d’amore».
Non è che sottotraccia stai citando il Barthes degli oggetti come elementi fortemente significativi oltre che come significanti?
«Tutti gli elementi che compongono Una vita al giorno provengono da una attenta, ma soprattutto spontanea, osservazione della realtà che mi circonda. E nella maggior parte dei casi immagino possa circondare anche chi si avventura fra le pagine del mio romanzo».
Italo Calvino e Wislawa Szymborska, un narratore e una poetessa, paiono essere due possibili numi tutelari del romanzo.
«Certi autori, al contrario delle aspirine, quando li assumi poi continuano il loro effetto per tutta la vita. La Szymborska in particolare, pur non essendo mai riuscito a pronunciarla correttamente, è stata un’eroina del nostro tempo, passato presente e futuro. Qualche anno fa tenne una conferenza anche a Bologna. Nelle vite al giorno di ognuno, è bene scegliere pochi e selezionati rimpianti. Tra le mie scelgo il 27 marzo 2009 quando, chissà perché, non sono entrato nell’Aula Magna di Santa Lucia».
Comprendo. Ma intuisco anche un non voler prendersi carico della figura di Calvino.
«Non ho voluto toccare Calvino perché all’epoca del mio primo romanzo L’amore non si dice, uscì la recensione di un giornalista che solo casualmente si chiama come te, il quale scrisse: “Come dite? Marcovaldo di Calvino? Fuocherello”. Perciò non volevo scottarmi troppo…»
Oddio, un tenero ricordo d’infanzia. Glissiamo subito e veniamo allo stile di Una vita al giorno. Apparentemente è più caciarone, diciamo meno composto, rispetto alle prove precedenti.
«Ogni libro della mia sterminata produzione di tre romanzi, ha uno stile che cerca di veicolare su carta le milioni sfaccettature della realtà. Di Se son rose, che è diventato di recente un film abbiam detto. Aggiungo che è la più bella realtà che avessi potuto immaginare a posteriori. Ma anche “L’amore non si dice” è un testo che cerca di ricalcare, a modo mio, la realtà. Però, qualche giorno fa, in libreria, una signora mi ha confessato di non averlo mai letto. Perché, a suo avviso, un uomo che scrive lettere d’amore (anche se non parlano d’amore) è fantascienza e a lei non piace la fantascienza. Con “Una vita al giorno” ho cercato di scontrarmi con incidenti di genere».
Invece, anche se pare il primo riferimento, non ci vedo Delerm. Niente prime sorsate di birra?
«Neanche io ci vedo Delerm! Non potrei neanche volendo. L’allergia al glutine è davvero spietata. Aggiungo, fortunatamente?»
Potrebbe essere. Sarà stata lei a portarti così velocemente alla prima ristampa del romanzo. Mica male come allergia…
«Ce l’ho da quando avevo tre anni. Pensa se mi fosse stata diagnosticata prima!»