Sono passati circa cinque mesi da quando Carlo Lucarelli ha rimesso in campo il commissario De Luca pubblicando per Einaudi-Stile libero Peccato Mortale, ultimo tassello di una saga ripresa due anni addietro con Intrigo italiano, dopo la tripletta edita da Sellerio negli anni Novanta.
Ma Peccato Mortale, edito da Einaudi-Stile libero come gli altri lavori dell’autore parmense, sta invecchiando bene, rispetto alla miriade di gialli e noir pubblicati ogni anno in Italia. In genere l’arco vitale di un noir è oramai più rapido del moscerino dell’uva…
Questo romanzo, invece, tiene ancora bene. Sarà per l’ambientazione, una Bologna fotografata verso la fine del Secondo conflitto mondiale fra caduta del regime fascista, armistizio e passaggio delle forze tedesche. Sarà perché, invece di procedere in avanti, Lucarelli ha deciso di scavare in quelle che sono le origini del commissario che lo ha fatto conoscere al pubblico. Di fatto quello che troviamo nelle pagine del romanzo è un De Luca più giovane che in Carta Bianca, e anche più immerso nel periodo fascista, quello in cui opera da poliziotto, senza volerne assimilare i metodi e l’ideologia. Una piccola, ma interessante sorpresa nel tran tran della serialità.
«Tutto parte dall’aver scritto il primo romanzo del commissario De Luca, senza sapere se avrei continuato a raccontarne le vicende» ci dice Lucarelli, di passaggio a Bologna. «Successivamente mi sono reso conto di aver lasciato alcune domande senza offrire delle risposte. Così ho scritto tre romanzi per trovarle, quelle risposte. Cioè chi è il mio commissario, perché fa certe cose, come va avanti la sua vita nonostante quello che ha fatto durante il periodo fascista… e sono arrivato al fondo con il penultimo romanzo. Lì De Luca si rende un po’ conto di chi è, ma rimanevano ugualmente dei buchi nella sua vita. A quel punto o andavo avanti con la cronologia romanzesca, ma avevo un commissario senza sorprese, oppure tornavo indietro e scoprivo un altro po’ della sua vita. Ecco, Peccato Mortale è ambientato nel 1943 per capire come si è messo nei guai. La domanda che muove il romanzo è “Uno come te, come si è messo nei guai?”».
Quindi il tuo non è un rifiuto dei vincoli imposti dalla serialità, ma uno sperimentare sul personaggio rimanendovi all’interno?
«Sperimentare, esatto. Anche se non è una cosa nuova, se ci pensi molti han fatto cose simili. Simenon, per dire. Molte volte è la serialità televisiva a far così. Un esempio è Fargo. Voglio dire, si può fare perché ci sono domande che i personaggi ti pongono, ma devi andare a stanare la risposta giusta dove essa si trova realmente».
Per De Luca hai affermato di aver chiuso un ciclo con i romanzi precedenti. Non mi pare che Peccato Mortale ne apra uno nuovo. Hai sperimentato nella serialità, hai risposto a ulteriori quesiti sul personaggio. Ma così facendo, credo gli sia stata data la possibilità di non ripresentarsi più.
«Infatti, non so di cosa parlerà il mio prossimo romanzo. A parte questo, Peccato mortale non voleva essere un “Ora ricominciamo con una nuova serie”. Qui ho dato una risposta per quanto riguarda il personaggio. Ancora meglio: ho trovato un meccanismo».
Cioè?
«A mio parere è stato un meccanismo comune a molti italiani che hanno vissuto quel periodo storico. Un meccanismo giustificatorio, che racconta molto dell’essere italiani, allora e anche oggi. Ritornando alla domanda, certo, posso finirla qui con De Luca. Però non c’è solo lui nel mio romanzo. Ci sono anche la città di Bologna, i suoi ambienti, i suoi sfondi…»
Una Bologna che non vede la fine della guerra…
«È la Bologna nel 1943. Una città che vive sotto i bombardamenti e che mi è in gran parte sconosciuta. Ci viviamo in questa città, però non ricordiamo di come sia stata ferita, come sia stata massacrata dalle bombe».
Quindi è la città a poter essere protagonista di un tuo prossimo romanzo?
«Bologna ha ancora tanto da svelare. Quella del 1944, per esempio. È ancora tutta da raccontare. Vi agisce una brigata nera fra le più feroci, ci sono gli interventi dei Gap, ci sono i tedeschi… Insomma ci son tante cose… Forse ho chiarito la figura di De Luca, ma la città no, non del tutto».
In Peccato mortale già utilizzi una zona grigia della storia italiana, uno strano “cuscinetto”. Parti dal 25 luglio e arrivi all’otto settembre 1943…
«All’inizio volevo scrivere un romanzo ambientato durante il periodo fascista, così da vedere come e chi era De Luca prima della Repubblica Sociale Italiana. Poi mi è venuto in mente questo periodo, che non è in realtà molto raccontato. Periodo particolarissimo, con la gente che va a letto alle 11 di sera sotto il regime mussoliniano, tutti in orbace, pronti ad attendere al sabato fascista, e solo un quarto d’ora dopo il fascismo non c’è più. Per cento giorni non c’è più. È un periodo assai strano, ambiguo. Perché Badoglio e il re sono più duri di Mussolini. Con quest’ultimo erano vietati gli assembramenti, con quegli altri ti sparano se solo vedono un capannello di persone. E rimangono in vigore le leggi razziali. Per cui chi pensa che caduto il fascismo si possa finalmente avere uno stato di diritto, sbaglia. E poi: finisce la guerra? Neanche per sogno. Continua, fino all’otto settembre. Ed è in quella data soprattutto che Bologna si dimostra un luogo particolare per cui, chi attraversa la strada, come il mio De Luca, e va verso l’hotel Baglioni, vi trova parcheggiata davanti una Mercedes nera con tanto di svastiche. E dal giorno dopo, le bandiere dei nazisti a sventolare sui tetti. Un luogo bellissimo per ambientarci una storia. Tutta da raccontare e da capire, anche per me, sia chiaro».
Ti propongo un parallelo fra De Luca e Coliandro. È corretto dire che il primo dichiara la tua visione storica della realtà, mentre il secondo è narrazione allo stato puro?
«È corretto, ma con entrambi credo di raccontare sempre la stessa cosa: un certo modo di essere italiani. L’ho fatto con i romanzi ambientati in Eritrea a inizi Novecento e l’ho fatto con De Luca, che mi sono reso conto essere quel tipo di italiano lì. Sai, Sordi aveva fatto Storia di un italiano… Ecco, io ho fatto un lavoro su italiani che hanno avuto storie diverse e fatto scelte diverse e son quelli che piacciono a me».
Detto in maniera più didascalica?
«Beh, De Luca ha fatto delle scelte, altri sono andati in montagna in quello stesso periodo…»
E Coliandro?
«La stessa cosa. È un certo modo di essere italiani anche per lui. In televisione, però».
L’incipit parossistico di Peccato mortale me ne ha ricordato un altro: quello di Carta Bianca. Attraverso questo attacco, diciamo “gemellare”, qualcosa che lega i due romanzi?
«Sicuramente. Ho scritto Peccato mortale solo dopo aver riletto gli altri romanzi. Questo perché dovevo rientrare in un certo tipo di atmosfera. Avevo scritto Carta bianca in modo diverso dai romanzi successivi. Jim Thompson, un grande romanziere americano, ha scritto che è difficile far capire cosa pensa un personaggio. Allora fallo parlare e fallo agire, vedrai che si capirà. Questa narrazione “tagliata”, con pochi aggettivi, con nessuna spiegazione, viene da qui. Volevo quel tipo di stile. Avevo cercato di farlo già con Intrigo Italiano, ma ci son riuscito fino a un certo punto. Qui ci ho riprovato usando direttamente quel modo. La mia logica era identica, cioè un inizio costruito come in Carta Bianca, un certo tipo di sensazioni, un mistero ecc.».
“La nostra capacità dovrebbe essere di muoversi ancora prima di arrivare al guaio totale.
Quando l’ascesa è ancora resistibile.
E guarda bene che l’ascesa è sempre resistibile.”
Il modo in cui impasti De Luca, mi pare sia la metafora della nostra contemporaneità. Lui fa solo il suo mestiere, non si schiera.
«È uno dei problemi che vengono fuori in determinati contesti storici. Non fare scelte, non schierarsi… Il mio commissario non si schiera, dice di essere solo un poliziotto, dice che accadono cose brutte, ma che non si è ancora al livello di dover reagire perché quanto accade infrange le leggi. In realtà sta accadendo. La nostra capacità dovrebbe essere di muoversi ancora prima di arrivare al guaio totale. Quando l’ascesa è ancora resistibile. E guarda bene che l’ascesa è sempre resistibile. Se non la si contrasta, logico che dopo ti toccherà farla, la resistenza. Il mio commissario si trova in questo tipo di situazione».
De Luca racconta di come il fascismo non sia mai morto?
«Non è mai morto. Se lo guardiamo storicamente, dal punto di vista del mio commissario, ecco che lui potrebbe affermarlo. Si ritrova con gli stessi colleghi che aveva prima in Carta Bianca, si ritrova con gli stessi colleghi anche in Intrigo Italiano. È stato così. La gran parte dei funzionari di polizia è passato nei ranghi dello stato repubblicano.
Le bombe, le stragi italiane, alla fine hanno dietro – nei depistaggi e in altro – le stesse persone. La prassi di un certo tipo di sottogoverno criminale è quella. Quindi il fascismo non è mai morto, da questo punto di vista. Non è mai morto nelle idee di chi ci ha creduto… Ma non è mai morto nemmeno in tutte quelle persone che dicono “Vabbè, non è ancora un grande problema”, “Vabbè, non importa”, “Vabbè, ma ho altro a cui pensare e altro da fare”. Questi non sono fascisti, ma sono i fratelli di quelli che allora permisero di far nascere il fascismo».
A livello di costruzione della storia, Peccato mortale presenta un finale anticonsolatorio. Verrebbe da definirlo come un romanzo anticolandriano.
«È così. Già da Carta bianca De Luca mette le manette a qualcuno. Però le mette non a quello che se le meriterebbe di più. Soprattutto in questo mio ultimo romanzo, la consolazione deve mancare. Tieni conto che è un romanzo abbastanza nero, come atmosfere. È un romanzo cupo, pesante. E poi, l’Italia non è consolatoria. Invece Coliandro consola perché è un personaggio che inizia male – carico di tutti i pregiudizi che non ci piacciono, ma alla fine è un’altra persona: migliore. Il bello è che Coliandro si azzera e ricomincia daccapo. È una consolazione continua. De Luca proprio no».