Cosa: intervista a Micaela Casalboni, co-direttrice artistica della Compagnia Teatro dell’Argine Info: https://www.itcteatro.it
Non sono una bazzecola, vent’anni. Soprattutto se passati a far teatro, a farlo vicino a Bologna, ma sempre in quello che ne è un satellite relativamente autonomo, per lanciarsi verso il resto d’Italia e l’Europa. Questo ha fatto dal 1998, a San Lazzaro di Savena, la compagnia Teatro dell’argine negli spazi di Itc Teatro. Vent’anni di lavoro verso l’esterno, che hanno portato a raggiungere e superare abbondantemente le trecento aperture di sipario ogni anno.
E per festeggiare questo importante anniversario la direzione artistica del Teatro dell’Argine titola “Venti” la stagione teatrale 208-2019 di Itc Teatro, che apre ufficialmente il 27 ottobre con lo Stabat Mater di Antonio Tarantino, portato in scena da Maria Paiato. Una stagione che diventa, almeno in parte, anche un momento di consuntivo dove si guarda indietro al lavoro fatto mentre si sta progettando il futuro.
Saranno infatti ventitré gli spettacoli proposti nei tre diversi cartelloni: Teatro, Solo all’Itc e Non solo teatro. Fra questi, la compagnia dell’Argine riprende alcune sue pièce storiche (Gli equilibristi, cavalli alla finestra, Liberata, Italiani Cìncali!), cui si aggiunge la nuova produzione di Mi chiamo Andrea, faccio fumetti per la regia di Nicola Bonazzi, scritto da Cristian Poli e con Andrea Santonastaso in scena dal 13 al 16 dicembre a sostenere l’intero “monologo disegnato” al cui centro giganteggia la figura di Andrea Pazienza.
“Quando è uscito questo concorso di idee del Comune di San Lazzaro per gestire il nuovo Itc, avevamo dei competitor, come li si chiama oggi, veramente spaventosi” ci dice Micaela Casalboni, attrice e fra i fondatori della Compagnia dell’argine. “Ci siam detti: Vabbè. Ci siamo buttati”.
E ora siete qui.
Questo mettere a disposizione quello che abbiamo – idee, competenze, persone, attori registi, drammaturghi. Mettere in campo gente che non fa solo il teatro per il teatro, ma intende il teatro come connettore, come idea del comunicare nel senso etimologico del termine ha funzionato. Il mettere insieme, il mettersi in relazione: è stato quanto ha reso vincente il nostro lavoro. Non l’aver fatto lo spettacolo più bello del mondo. Beh, magari tra i tanti spettacoli portati in scena, ne avremo fatto qualcuno di bellissimo. Però la verità e la forza è stata quella di provare a prendersi cura con lo strumento che avevamo, con le competenze che avevamo, cioè con quelle del teatro, di un luogo e di una comunità.
Un luogo e un teatro e una comunità che sono a San Lazzaro…
Ce lo siamo detti a un certo punto. E ci siamo risposti che il luogo è sì San Lazzaro di Savena, ma è Bologna. Non necessariamente il centro d’Italia, ma una sua periferia. E abbiamo deciso che bisognava uscire fuori, verso l’Italia, verso il resto dell’Europa, verso i paesi che stanno al di fuori di essa. Da qui questa spinta che è della Compagnia, a fare progetti anche fuori dal territorio di residenza… come idea di nutrimento per il nostro lavoro e per il lavoro e la vita della comunità che ci sta intorno. In questo senso il teatro per noi si lega alla cittadinanza attiva, alla democrazia attiva, al tema dei diritti.
Il teatro non come semplice luogo della rappresentazione?
Il teatro come progetto per “dar voce”, non solo dentro le quattro mura, ma andando fuori, in altri spazi, ogni tanto facendo un po’ di confusione, ogni tanto sovralavorando… Però credo che questa sia stato quanto ci ha dato forza e ci ha portati a oggi. Poi, ogni tanto ci chiamano in giro per l’Europa a raccontare di questo strano modello artistico, gestionale, economico, sociale, educativo… Ecco, questo mettere piedini dappertutto ci ha portati a imparare tanto e ci ha dato vita.
Senza togliervi il desiderio di sperimentare ancora. La scorsa stagione avete montato in maniera permanente un tendone da circo nel cortile dell’Itc. Lo avete trasformato in un luogo dove si fanno varie cose, aperte al territorio, in una intenzione estensiva che abbraccia dal ballo liscio ad altri spettacoli teatrali.
Nel cortile del teatro, fra il tendone ribattezzato ITC Lab e il vecchio teatrobus, si è formato quello che noi chiamiamo “il quartierino della felicità”. Lì anche chi non viene a teatro per vedere uno spettacolo, ma è una cittadina, un cittadino, un bambino, un anziano, chiunque abbia voglia di venire, sedersi, sbirciare un pezzo di prova è benvenuto. Pensa anche che il tendone è uno spazio architettonico senza barriere, per gli spettatori e gli artisti, ti dà la possibilità di accogliere gruppi misti di persone, con fragilità e non. Un moltiplicatore di occasioni.
Le nostre architetture sono strane e si accroccano l’una con l’altra, ma pian panino aggiungiamo qualcosa, in una dimensione di casa? di accoglienza? di apertura? Diciamo di un’arte che appartiene non solo agli artisti ma un po’ a tutti. Così questa diventa occasione di rivolta gentile.
Possiamo definire a questo punto ITC Teatro come nuovo modello di casa del popolo?
Chissà. Noi in Casa del popolo, lo spettacolo dello scorso anno, lo suggerivamo. Cioè ci piacerebbe, intendendo la casa del popolo come quel modello nato dalla voglia di tante persone, che avevano bisogno di tante cose, di aiutarsi l’una con l’altra per ottenerle. Ecco, in questo senso, assolutamente sì.
Veniamo un attimo alla stagione 2018-2019, rimandando per il programma completo al sito www.itcteatro.it. Festeggiate il ventennale recuperando e riproponendo alcuni dei vostri spettacoli.
Abbiamo voluto riprendere esclusivamente alcuni spettacoli nati all’ITC per gli spazi dell’ITC e per il suo pubblico. Quindi Italiani Cincali! con cui abbiamo girato Italia ed Europa collezionando oltre cinquecento repliche. E poi Liberata e I cavalli alle finestre. Ma anche Gli equilibristi, che ha avuto una diffusione come teatro per adulti e ora sta avendo una seconda giovinezza nei circuiti di teatro ragazzi. Si è rivelato essere un lavoro to public, adatto a qualunque tipo di pubblico.
Perché avete recuperato proprio questi titoli? Come avete organizzato il resto della programmazione?
Perché per noi sono un modo di ricondividere il lavoro fatto fino a ora. Rinverdire se vuoi anche quello che è un appuntamento con un pubblico amico.
Per l’altra domanda, ti dico che abbiamo voluto richiamare una serie di artisti – ce sono stati di importanti per noi… – non con vecchi spettacoli, ma con i nuovi lavori. Quindi nella sezione del cartellone intitolata Teatro ecco Maria Paiato, che apre la stagione diciamo per adulti con Stabat Mater il 27 ottobre. Poi il 9 febbraio torna Arianna Scommegna con Utoya, scritto da Edoardo Erba, sulla tragedia norvegese del 2011. Mentre il 16 marzo abbiamo Laura Curino, con La lista. Porta in scena il lavoro su un uomo che, durante il nazismo, ha salvato non persone ma quasi diecimila opere d’arte. Se ci pensi in un certo senso è come salvare persone.
Poi ospitiamo spettacoli come Ubu re, del Teatro dei venti, che il 3 febbraio porterà in scena attori provenienti dagli istituti di detenzione di Castelfranco Emilia e Modena e attori della compagnia. È un’altra di quelle operazioni che ci interessano molto. Il Teatro dei venti ci è vicino come modo di lavorare, nel coinvolgere le comunità che si hanno intorno. Hanno un carcere vicino alla loro sede. Lavorano con i detenuti, così come noi lavoriamo con persone che hanno vari background di immigrazione ― ma sempre in gruppi misti, con ragazzi che frequentano il liceo Classico e a cui un lavoro del genere serve molto. Aggiungo che l’Itc ospita vari gruppi teatrali giovani, che fanno lavori anche molto importanti, ma che non sempre trovano spazio in piazze grosse come Bologna. Non li sto a elencare, dico solo che siamo nell’area metropolitana bolognese e in questa stagione ne avremo alcuni molto interessanti.
La poesia pare sia fra i vostri interessi.
Fai riferimento a Rossella Rapisarda, che con Senza filtro omaggia Alda Merini e che ospiteremo il 24 gennaio prossimo.
Anche, ma penso alla poesia come “rito collettivo”. Penso al Poetry slam…
Che ospitiamo nella sezione Non solo teatro. Siamo al terzo anno.
Esperimento che vi è piaciuto molto.
Fai conto che il primo anno, nell’esperimento pilota, gli spettatori non erano pochi. Nella scorsa edizione abbiamo avuto il tutto esaurito, con persone anche in piedi. Per un evento che ha al suo centro la poesia, non è così scontato. A dimostrazione che il teatro non è un luogo polveroso, al pari di biblioteche e musei. Sono luoghi vivi, lontani dalla noia.
Insomma un cartellone che festeggia vent’anni di attività in modo composito.
È stato il modo con cui abbiamo deciso di festeggiare: tenendo insieme e facendo convergere fra loro le spinte che in questi anni sono state importanti per noi. Quindi relazione con gli artisti grandi, ma dare opportunità agli artisti piccoli, agli mergenti: il nostro pubblico viene a vederli entrambi perché adesso si fida. Ma è anche un modo per dar forma lentamente a una idea di città, con tante diversità mescolate insieme a produrre, speriamo, una ricetta che ci dia nuova vita.
Un altro dei tanti modi della vostra voglia di curiosare nel cosa accade fuori dalle mura del teatro e a sperimentare. Per esempio la fiducia profusa nelle idee di Stefano Tassinari, che stagione dopo stagione si sono trasformate in appuntamenti forti.
Stefano è la persona che ci manca in assoluto di più. Ci manca tutti i giorni perché al di là delle rassegne storiche che ha creato e curato, con noi a cercare di sostenerle e nutrirle, era una figura cui ti potevi rivolgere su qualunque punto del processo quando entravi in crisi. Lungo questi vent’anni, a Stefano noi dobbiamo tutto. E con lui è stata anche la prima volta in cui ci siamo aperti verso l’esterno, il fuori. Da lì non abbiamo più smesso a dire “Facciamolo insieme”. A volte ci sentiamo veramente bulimici in questa nostra forma di proposta. Però le cose che hanno un senso, nutrono. Quindi dobbiamo continuare a farlo, altrimenti Stefano ci picchia. Fosse diversamente, ovunque sia adesso, non sarebbe più con noi.