Cosa: Recensione di Enclave, di Bruno Brunini
Presa nella definizione che ne offre il dizionario, “enclave” appare oggi non solo come una parola inconsueta, se non proprio desueta, ma anche priva di significato.
Invece è una parola che ha ragione di esistere nella società contemporanea.
Enclave sono di fatto quei luoghi in cui nella contemporaneità si creano aggregazioni di persone dovute all’esclusione o all’espulsione da altri luoghi. Per ampliamento di significato, sono certe zone delle periferie e certi stabili di periferia dove si consumano le esistenze di immigrati, di disagiati, di poveri. Possono essere definite come enclave, porzioni di territorio urbano abbandonate a se stesse per quanto riguarda l’umanità che le abita. Sono quindi dei ghetti moderni, sono le banlieu francesi. Ma enclave possono essere definiti anche i pensieri, i desideri, i bisogni che passano inascoltati per il mondo circostante, fino a poter essere definiti come estranei. È una segregazione apparentemente non coercitiva, che la società odierna opera su determinate tipologie di individui, per ragioni le più varie, mai del tutto oneste.
Proprio Enclave si intitola la quarta raccolta poetica di Bruno Brunini. Ma per comprendere almeno in parte questo titolo, bisogna tornare a collegare l’autore con la “non scuola” di scrittori attiva attorno al mai dimenticato Roberto Roversi, una trentina di anni addietro. Roversi è stato uno dei più importanti esponenti della poesia italiana del Novecento, un uomo di lettere, un intellettuale appartato dall’agone politico-letterario eppure sempre attivo in questi campi. Brunini, che a Bologna vive da sempre, è stato uno dei fondatori della Cooperativa Dispacci voluta anche da Roversi negli anni Ottanta. È da lì, dalla vicinanza con l’autore bolognese, che prende forma l’innesco di Enclave.
È lì che possiamo trovare il motore primo da cui Brunini, con lingua poetica autonoma, scruta la realtà, dall’affrontarla attraverso attraverso l’elaborazione di un ragionamento mai casuale.
Rispetto però al “non maestro” Roversi, il “non allievo” Brunini propone da sempre una scrittura più asciutta e verticale, più spiccatamente narrativo-cronachistica, più aderente al reale ma non al realismo tout court. La sua è infatti una poesia che da sempre propone tratti fortemente impressionistici, supportati in questo caso da una frequente proposta di elenchi, di correlativi oggettivi, di frasi paratattiche. Questo accumulo crea il paesaggio, sia esteriore che interiore, dell’intera raccolta; documenta la realtà oggettiva sui cui si sviluppa e la riflessione che ne scaturisce.
La tradizione poetica novecentesca in Enclave è sempre dichiarata, come si nota in certi attacchi (Ma tornano/dal buio sepolto dentro il giorno/le ombre mute delle ciminiere), nei successivi sviluppi spiccatamente narrativi (nei tramonti delle periferie/cittadini di nessun posto/camminano,/sulla loro ombra), in alcune citazioni nascoste o involontarie di alcuni autori.
Vi è anche una spinta anch’essa novecentesca a rendere più oscuro il significato dei testi, in favore di un sentimento del tragico che poggia sopra il meccanismo retorico del coinvolgere il lettore in un gioco di rispecchiamenti (Il tuo corpo/è solo una formula per loro/che senza sonno ti conduce/sulla cima delle porte,/che diventano/ago, torpore,/l’ombra di un infermiere). Un tragico che quindi resta parzialmente inspiegabile, che spesso si focalizza sull’immagine per farsi concetto e concretezza. Ecco allora la “nuova povertà/delle pietre”, che “muove la cronaca”, oppure la precaria “illusione dei giorni”.
Brunini inonda le immagini dei suoi testi di luce o di buio (materica e non), per dar loro profondità visiva e di argomentazione. In questo modo il racconto che ne scaturisce, per quanto di ascendenza fortemente Romantica, si fa a tratti epico. Sono spesso le chiuse, con un accento retorico ben orchestrato, ad affermare il richiamo all’epicità.
Brunini non cerca però il retorico, non lo stimola a farsi presente e preponderante. Prova a tenere il discorso sempre lì dove la solitudine appare un prodotto della disperazione, dello sfruttamento sociale, della privazione dei diritti e, in genere, su una linea di raffreddamento. Spesso infatti i testi appaiono come cronache universalizzate dove la voce del poeta è voce del cronista e la partecipazione emotiva risulta secondaria rispetto alla descrizione. Così “Finestre si affacciano/su altre finestre,/fantasmi di stanze/lasciano occhi sul davanzale/alveare di nomi/che la luce ignora”, con il suo citare un incipit di Luciano Erba, è un esempio fra i molti possibili.
Mostra come Enclave voglia raccontare il nostro passato prossimo e il nostro presente, la sua precarietà, la frattura sempre più evidente fra chi viene rifiutato dalla società corrente e chi non vuole vedere la deriva egoistica che ci avvolge senza remissione. Mostra la partecipazione dell’autore, come anche il suo voler tenere la parola poetica lontana dalle facili scorciatoie che portano al falso buonismo.