Mar del Plata: rugby e memoria a Teatri di Vita

Recensione dello spettacolo che ha riscosso grande successo di pubblico

mar de plata teatro

IN BREVE Cosa: recensione dello spettacolo Mar del Plata Chi: testo teatrale di Claudio Fava Foto: Federico Riva

È come se ogni tanto avessimo bisogno di qualche pugno allo stomaco, ben assestato, che possa ricordarci che la libertà e i diritti non sono stati storicamente una dotazione connaturata al nascere uomini e all’organizzarsi in società, e che tutti i giorni c’è una battaglia da combattere contro l’ambiguità pericolosa dei concetti di Patria, onore e ordine. Questo passaggio lo spettacolo di Claudio Fava, Mar del Plata, lo interpreta bene e si nutre proprio del bisogno di memoria e della necessità di trovare delle forme che sfuggano all’anestesia delle parole stanche.

La messinscena è difficile e occorre uno stile televisivo o cinematografico per superare alcune difficoltà narrative: c’è il limite dell’unità di spazio e di tempo che pende sempre come spada di Damocle su una drammaturgia che deve raccontare uno sport di squadra complesso e molto combattuto, a cui si somma anche l’evoluzione di una minaccia sociale e politica. La scena, allora, fa di economia virtù: lo spogliatoio, che in partenza si configura come luogo di esibizione del maschile spinto fino al parossismo del machismo, diventa luogo di tortura che ribalta da delizia a croce l’utilizzo del maschile stesso.

Il nazionalismo esasperato, tipico dei regimi del Novecento, tortura e umilia i giocatori mettendo al centro proprio la castrazione: i giovani cresciuti con il capello lungo e la speranza della rivoluzione dopo il colpo di stato militare vengono consegnati a quell’abisso storico di repressione e censura chiamato Desaparecidos. Vengono torturati proprio nel cuore della loro identità di genere: tutto ciò che non combacia con la retorica della gloria darwinista è femminilizzato. La lingua non rimane indifferente: è forte, non censura la rabbia e la violenza, collega Argentina e Sicilia, ricordandoci che il paese bianco azzurro ha una radice comune con il nostro paese, che va al di là della stupida logica dello Stato-nazione.

Le scosse sui genitali, il turpiloquio del maricon ripetuto in maniera martellante, la messinscena di una tresca omosessuale punita, lo svuotamento delle viscere dell’allenatore, giustiziato come il Gesù Cristo, pioniere di quel cristianesimo condannato nietzschianamente come propulsore di un culto della debolezza e della relazione. Identità contro relazione, Super Io contro Es.

La divisione manichea, molto freudiana, del palcoscenico, alto/basso, sembra riportare alla biforcazione del nostro essere: le regole sociali imposte dalla cornice valoriale di riferimento sovrastano il faticoso lavoro psichico di ricerca dell’equilibrio tra sicurezza e libertà. In alto, Videla annuncia alla nazione e detta il perimetro di azione entro cui i cittadini devono interiorizzare la loro vita di comunità. Sempre in alto, i giocatori, rivelano la loro identità sociale.

In basso, l’istinto primordiale di fuga per la sopravvivenza che confligge con la rabbia e la forza di non scappare, di difendere con le unghie e con i denti il proprio territorio (ideologico e geografico), di non mollare di un centimetro, proprio come nel rugby. La regia è abile, mette tra le righe proprio la nevrosi che si scatena già nell’esecutore degli ordini: un fantoccio che nella divisa ha sublimato un complesso di inferiorità, che tende a riemergere nei passaggi meno controllati del suo discorso e dei suoi movimenti. Dettagli resi molto vividi da quella che è nel complesso la migliore prova attoriale.

Per il resto la prova di interpretazione è corale, nel gruppo degli atleti non svetta particolarmente nessuna individualità, come a voler portare sulla scena la normalità di quelli che in fondo erano solo dei ventenni, condannati per non essersi voltati dall’altra parte e per non aver riempito di retorica patriottica l’inizio della loro partita, quando ai fasti dell’inno nazionale hanno sostituito un lunghissimo silenzio in memoria del primo amico ucciso dalla repressione.

Mar de la Plata il suo miracolo, però, lo compie prima ancora che si alzi il sipario: in un teatro stipato in ogni ordine di posto, con una platea che più variegata non si può; lo spettacolo squarcia la sesta parete, quella tra palco e città, porta a Teatri di Vita una squadra di piccoli rugbisti in erba insieme all’allenatore e alle proprie famiglie. La storia della squadra argentina, disintegrata e fatta sparire dagli uomini di Videla, lancia un nuovo ponte per il teatro: se cominciasse da qui un’intensa collaborazione tra luoghi apparentemente così distanti come il campo e il palcoscenico? Non è una frontiera che vale la pena esplorare per bucare l’indifferenza e ritrovare una cooperazione educativa più ampia?

7 febbraio 2017

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