IN BREVE Cosa: regia di Asif Kapadia, Amy. The girl behind the name Evento di apertura-Anteprima italiana Biografilm Festival – International Celebration of Lives – 11^ edizione Dove: Bologna: Cinema Arlecchino, via Lame 57 Quando: venerdì 5 giugno 2015 Costo: Riservato Follower e Guest Info: Biografilm
Quello che ci è rimasto impresso dei novanta minuti di Amy. The girl behind the name, biopic a firma Asif Kapadia interamente dedicato alla figura di Amy Winehouse, sono le ballerine. Le ballerine intese come scarpa, quelle senza tacco, molto scollate. Da un certo punto in poi del film appaiono con una certa insistenza, quasi a contrappuntare il disagio umano di questa cantante, compositrice, produttrice discografica e stilista morta nel 2011, a 27 anni, e immediatamente inserita nel “club dei 27”, che comprende artisti come Brian Jones, Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix. Quelle scarpe, sfondate, annerite, sporcate da macchie di sangue sembrano essere il vero simbolo di una genialità dietro cui si annida il disagio cresciuto su problematiche di relazione. Una vita breve, bruciata sull’altare della moderna mitopoietica che accomuna molti artisti, specie in ambito musicale, questa in sintesi la parabola artistica e umana di Amy Winehouse, per ora ultima nella triste sequenza di nomi proprio dopo Kurt Kobain.
Biopic classico, ma di estrema efficacia nel suo assemblare fra loro immagini, filmati provenienti da varie situazioni oltre che da vari supporti (telefonini, videocamere, super 8 ecc.) e alcuni “espedienti” di montaggio atti a enfatizzare alcuni passaggi (ralentis, dissolvenze incrociate su tutti), Amy. The girl behind the name apre oggi con una doppia proiezione l’edizione 2015 del Biografilm festival, che tiene banco a Bologna fino al 15 giugno.
Oltre a essere espressamente dedicate ai “guest” e ai “follower” del Festival, quindi con obbligo di prenotazione al desk accoglienza, le due proiezioni che si terranno venerdì 5 presso il cinema Arlecchino di via Lame 59 alle 20 e alle 22.30 rappresentano inoltre l’anteprima italiana per il lavoro di Kapadia. «La regina Elisabetta dovrà attendere un mese e mezzo prima di vederlo» ha scherzato presentandolo alla stampa Andrea Romeo, direttore artistico del Festival. Anche gli italiani che non potranno assistere a queste due uniche proiezioni, dovranno attendere. Almeno fino a settembre, quando Amy. The girl behind the name dovrebbe avere una regolare distribuzione in sala su tutto il territorio nazionale.
Kapadia, nel costruire questo omaggio a una delle più belle e particolari voci jazz-soul che la musica contemporanea ha offerto negli ultimi due lustri, non ha voluto arrischiare puntate in avanti, non ha spinto verso ipotesi che potessero essere definite come “interpretative” della musica o della vita della Winehouse. Ha preferito seguire un percorso cronologico lineare che, partendo dall’adolescenza, si è declinato negli eventi focali di una carriera fulminante quanto disastrosa per la psiche della songwriter inglese.
Eppure, in questo rimanere “in superficie”, nel tentare una distanza dalla materia narrata quasi impossibile vista la vicinanza temporale ai fatti, nulla manca, tutto è visibile, anche se a volte troppo sottotraccia per non saltare alla mente un po’ dopo la visione. Così la bulimia di cui era affetta Amy, e che è l’epitome o, forse, il segnale del cosa sarebbe accaduto poco oltre, viene citata velocemente e solo dopo che i “disturbi” causati da alcol e droghe sono stati ampiamente raccontati. La figura della madre diventa distante, quasi impalpabile, così come la separazione dei genitori. La figura del padre invece diventa molto ingombrante da metà pellicola in poi, ma non si capisce quanto sia un bieco sfruttatore della fama della figlia oppure un inetto incosciente, incapace di capire cosa le stesse accadendo.
Anche quando gli vien data la parola nulla traspare, ogni cosa sembra essere accaduta per mera concatenazione di cause imprevedibili o inevitabili. Non per tutti, sia chiaro. Molti degli amici, dei collaboratori vecchi e nuovi di Amy Winehouse, dei musicisti che hanno avuto a che fare con lei ne raccontano la grandezza come artista messa in parallelo con la sua profonda fragilità.
Eppure è proprio in questa distaccata accettazione delle dichiarazioni messe in parallelo con le immagini, il loro essere contrappuntate dai testi di alcune canzoni scritte e incise dalla Winehouse, testi dolorosamente autobiografici, che il lavoro di Kapadia trova la sua cifra e il suo valore. «Mi è piaciuto molto perché ha deciso di sposare un suo punto di vista» ha detto sempre Romeo, «perché ha scelto, perché non ha inserito tutto».
Ecco, su questo ultimo punto siamo in disaccordo. Il regista inglese a nostro avviso ha forse messo troppo dove non ve n’era bisogno. Proprio nel suo desiderio di restare spettatore dei fatti, non ha potuto eliminare quella che possiamo definire come una certa ridondanza di fondo, un “accanimento terapeutico” nel mostrare elementi ben chiari negandosi la sintesi proprio perché di grande resa drammatica.
Capita, uno esempio fra altri, per l’intera catabasi che cattura la Winehouse dal 2003. Quindi i suoi eccessi reiterati, l’estrema plagiabilità di cui mostra di soffrire, il rapporto di reciproco autolesionismo fisico e mentale che la lega al poi ex marito Blake Fielder-Civil, il suo essere lasciata in balia di se stessa.
Ma ciò che conta è che Kapadia in Amy. The girl behind the namenon tradisca né distorca la realtà dei fatti, ma che sottotraccia ponga un altro ordine di problemi: quello della centralità del visivo, del voyeuristico ossessivo e senza limiti, nelle vite degli altri. Il regista inglese, gli va concesso, si ferma almeno in parte prima, mostra un relativo pudore per il privato degli altri. Anche se non si nega ogni tanto l’effrazione e l’effettaccio, come quando usa le ultime foto della cantante prima della tragedia finale. Lì, a nostro avviso, si sconfina.