IN BREVE Cosa: “Hai studiato a Bologna se…” e gruppi simili per impostazione
di Fabrizio Binetti
Da una dozzina di giorni il gruppo aperto su Facebook “Hai studiato a Bologna se…” ha attirato l’attenzione di quasi 20.000 membri, che continuano ad aumentare a vista d’occhio. Con il sottotitolo “flash esperienziali di vita quotidiana a Bologna”, si rievoca il tempo andato, si appunta la bizzarria di avere vent’anni, si rispolvera il ricordo della Bologna anni ’90 attraverso la condivisione di simboli, locali, personaggi e cliché che hanno fatto di questa città un luogo comune, che abita la memoria di molte generazioni di studenti. Studenti che mai, credo, la dimenticheranno.
Non sono, però, flash esperienziali di una qualunque città universitaria: siamo nella Bologna dei balocchi, dove tutto si fa più letterario, più magico, più leggendario.
Bologna, de-scritta dai post e nei post, racconta una generazione alla ricerca di intimità, di amicizia, di estremi, di libertà, di gioia, di illusioni, di giocosità. Si mettono in scena le esperienze di migliaia di persone e la condivisione diventa il valore supremo. Il gruppo aperto ha proprio lo scopo di far ri-emergere l’unicità di quei momenti e la forza che li sorreggeva: l’esperienza passata è imperitura soprattutto perché condivisa.
I post rigenerano la memoria di quegli anni strepitosi con la stessa autenticità, spregiudicatezza, allegria, giovinezza che li contraddistingueva.
In effetti, il linguaggio smaccatamente “sincero” dei messaggi racconta il bisogno, l’urgenza, il desiderio, il divertissement di dire: “io c’ero ma non da solo, connesso in una rete di relazioni reali, sociali, fisiche, di autentica condivisione”.
Nostalgia “fisicalista” di una generazione che sa cos’è stato il vero social network? Chissà…
Nel gruppo la nostalgia intreccia la gioia di voler ri-esserci, di voler ri-scrivere un passato condiviso tutti insieme, nella certezza di parlare di un vissuto plurale in un tempo governato dal comune bisogno di esperire, scoprirsi, sbagliare: di studiare.
L’unica amarezza nel leggerli è che sembra che questo afflato di freschezza si perda con gli anni, non solo per l’ineludibile incombere del tempo. Il mio timore è che quella leggerezza si perda per la culturale incapacità di recuperare la nostra parte bambina che la società ritiene inadeguata e che vuole annientare con i propri sproloqui normativi sul dover essere.
Quello che manca nei post è la valorizzazione di un piacere che non subisca l’ossidazione del passato, ma che domini il tempo e il dovere e che svicoli la bruttezza del tempo che fu: un piacere retto da uno statuto di indefettibile leggerezza esistenziale, unico volano per la nostra crescita e felicità.
Il dubbio che mi viene è che la spregiudicatezza di alcuni post contenga, in potenza, la paura di una gioia a orologeria: come se la magnifica bellezza della gioia di quei tempi portasse in seno l’istruzione del suo naturale tramonto.
Questo mi dispiace e l’arrendevolezza mi suggerisce che occorre resistere per esistere e non limitarci a esistere per semplicemente ricordare.
L’articolo è pubblicato anche sul blog di analisi semiotiche SemioBo, #analyzeit